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Filippo II e don Chisciotte. La gloria delle disfatte

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Due figure tanto diverse, asimmetriche, non si potrebbero immaginare. Una lunga e sbilenca; l’altra bassa, flemmatica, elegante. Non sto parlando di una coppia comica, ma di Filippo II e Alonso Quijano (o Quijada: anche il nome è errante). Vissuti entrambi nel corso del crepuscolo del Siglo de Oro: il primo di nobili natali, erede di un regno enorme, con grandi occhi azzurri che facevano impressione, e il secondo invece con in sorte un blasone mediocre: era un hidalgo di provincia.

Filippo II – passato alla storia come el Rey Prudente – viveva isolato nelle sue residenze, con tempi contingentati. Trascorreva le ore passando al setaccio missive e dispacci, vagliando ogni decisione con una prudenza esasperante. All’inizio, allo stesso modo, Alonso Quijano (o Quijada: anche il nome è errante) trascorreva le ore tra i libri, isolato nella sua residenza. Non leggeva dispacci e nemmeno missive, ma opere di finzione: romanzi cortesi. E un giorno si innamorò a tal punto delle proprie letture che decise di incarnarle, di assumere il ruolo da protagonista in prima persona. Si nominò, in onore del Lancillotto – uno dei più straordinari cavalieri arturiani – don Chisciotte. Partì all’avventura e da quel momento sembrò aprirsi un abisso tra la sua vita errante e l’esistenza sedentaria e polverosa del sommo burocrate Filippo II.

Eppure tra le due biografie la distanza – studiando e spulciando – si accorcia.

Il re asburgico passò alla storia per la sua prudenza: emanava direttive dopo avere passato lunghi periodi a valutare ogni opzione da solo. Barricato soprattutto in quella reggia, fortezza, monastero e sepolcro che era l’Escorial – residenza imperiale che lui stesso aveva fatto costruire trasferendo la sede del regno vicino a Madrid – si perdeva tra corridoi angusti e passaggi segreti, dimorando nella sua cella austera costruita con blocchi di granito e cercando di amministrare la burocrazia pletorica che aveva ereditato, ma che lo rappresentava con esattezza icastica.

Chiedeva pareri, nominava consulenti (più o meno esperti), convocava Consigli, ma alla fine non esistevano deleghe. E soprattutto, una volta che la decisione era presa, Filippo II non cedeva di un passo, si impuntava con una determinazione condivisa – questa sì (eccome!) – dall’eroe di Cervantes che assaltava i nemici lancia in resta e privo di dubbi.

Per alcuni storici, Filippo II aveva in mente – quale molla della sua politica estera – un disegno anacronistico. Sognava l’idea medioevale di ricostruire un’Europa unita e cristiana. La difesa della fede cattolica fu probabilmente ciò che rese coerente ogni suo atto. Il Tribunale dell’Inquisizione e le guerre contro i nemici puntarono a far trionfare l’ortodossia. Combatté i moriscos (i musulmani convertiti) e i conversos (gli ebrei convertiti), lo ossessionarono i turchi infedeli e si avventurò nella guerra contro i Paesi Bassi soprattutto per sedare le richieste di indulgenza dei calvinisti. Questi furono avversati con un’ostinazione davvero fanatica. Non vi fu tregua e armistizio in cui tra le diverse concessioni Filippo II accettò di ammettere tolleranza verso i riformati. Fu una responsabilità per intero sua la separazione delle province settentrionali dei Paesi Bassi. Si imbarcò nell’impresa senza avere le risorse finanziarie adeguate, cercando di dirigere le operazioni a migliaia di chilometri di distanza senza mai delegare. Un’impresa forsennata probabilmente al solo scopo di limitare la libertà dei calvinisti.

Ora in tutto questo come non scorgere un’insana baldanza? Si deve dissentire senz’altro da una così ottusa forma di agire politico. D’altra parte come non farsi affascinare dalla temerarietà del disegno? Ancor più considerando che a lanciarsi verso una tale – direi gloriosa – disfatta è il sovrano di uno degli imperi più estesi nella storia di sempre.

Per questo è un onore creare un parallelismo con l’eroe più audace che questa terra abbia mai avuto. Se solo si richiamassero alla mente le avventure del Cavaliere, le lotte impavide contro gli incantatori – quelle creature sovrannaturali che trasformavano il mondo della sua fantasia in realtà spietata; se solo ci si lasciasse travolgere dall’utopia che aveva in testa l’eroe di Cervantes e da ogni sua sfida e ardimento perché i deboli fossero difesi e i torti riparati, allora sì che si capirebbe cosa – seppure con una specularità non combaciante – mette in collegamento due ossessivi compulsivi.

Anche Don Chisciotte infatti era guidato da una fede che potremmo definire fanatica. Portava avanti il suo progetto di ricostruzione dell’Età dell’Oro – come Filippo II credeva nella restaurazione di un’Europa cristiana – tranciando incertezze. Misconoscere la realtà era il suo comandamento. Gli eroi dei romanzi cavallereschi si stagliavano come modelli di vita da imitare: figure religiose, sante. È vero che il re non si muoveva dal bunker dentro cui si sentiva assediato, mentre don Chisciotte attraversava in lungo e in largo la Mancia lasciandosi guidare dal suo cavallo: entrambi però, ripeto, erano monomaniaci.

Trascinato dalle vite parallele,  adesso mi è venuta voglia di narrare – anche se qui solo per cenni brevi – di un’altra avventura catastrofica in cui si distinse ancora una volta Filippo II.

Il varo dell’Armada Invencible ebbe una pretesa sconfinata: conquistare l’Inghilterra. La flotta avrebbe dovuto trasportare su nave uno dei più grandi eserciti di allora. L’organizzazione dell’impresa fu impeccabile, venne messa in moto l’onnipotente burocrazia del regno sotto la supervisione onnisciente del sovrano assoluto. Tutto fu pianificato nei minimi dettagli, comprese le razioni per gli equipaggi – lo specifico perché tra coloro che furono addetti al reperimento delle provvigioni per gli uomini dell’Armada in Andalusia vi fu Miguel de Cervantes Saavedra (e cosa avrà pensato, mi chiedo, del progetto smisuratamente ostinato del monarca spagnolo? Non aveva ancora concepito il suo capolavoro, ma chissà se, mentre cercava rifornimenti per la flotta navale Invencible, valutò con ironia e ammirazione insieme l’atteggiamento donchisciottesco del re).

La causa principale riguardava sempre la guerra contro i Paesi Bassi e l’ingerenza dell’Inghilterra a favore di questi. Ma il movente che recise ogni dubbio fu ancora una volta religioso: la decapitazione della cattolica Maria Stuarda da parte di Elisabetta. Da Lisbona si levarono gli ormeggi a galee, galeazze e galeoni; presero il mare aperto artiglieria e marinai. Ma subito la flotta si imbatté in una tempesta al largo di Capo Finisterre; cinque navi furono disperse; erano necessarie riparazioni generali immediate. L’ammiraglio insistette perché fosse fermata l’impresa. Ma Filippo non arretrò di un millimetro.

E don Chisciotte l’avrebbe ammirato.

Una missione non può essere abbandonata per volontà del caso. Non possono le fortune avverse far segnare il passo a un eroe. Il pragmatismo è umiliazione. E il sovrano fu irremovibile.

Alla fine nessuno può raccontare che la flotta inglese abbia sconfitto in azione le navi spagnole. Certo, queste subirono perdite gravi, danni dolorosi, ma il disastro finale –   come nelle tragedie storiche – non fu il nemico a infliggerlo, ma le forze della natura. Da come si svolsero i fatti pare davvero che il Caso abbia voluto punire la hýbris del re: tre violentissime tempeste si abbatterono sull’Armada Invencible rendendola imbelle.

Don Chisciotte: “Qui fu Troia; qui non codardo contegno ma sorte iniqua e rea mi tolse la gloria delle mie vittorie; qui fortuna usò meco i capricci suoi; qui si oscurano le mie prodezze, qui, finalmente, caddero le mie speranze per non risorger mai più”.


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